Sono disponibili ad assumere il loro compito senza avere la precisa certezza di essere retribuiti, dimostrando di essere i primi a prendere in scarsa considerazione il proprio lavoro.
Si apprestano a entrare nella nebulosa della “didattica reticolare” e del rovesciamento delle classi. Sono ansiosi di assecondare i “digital native” e di assistere con paternalistica cura i propri colleghi, “digital immigrant” secondo la vulgata imperante; nella stragrande maggioranza infatti ignorano che l'inventore originale di questa fortunata quanto presunta convinzione, Marc Prensky, è da tempo a sua volta migrato verso altre forme di marketing concettuale (digital wisdom, skillness e stupidity).
Sono certi di essere protagonisti fondamentali di un'innovazione efficace, nonostante non vi siano evidenze né studi accreditati che confermino l'idea che li guida nella loro missione, ovvero che l'impiego massiccio e costante nella relazione didattica delle tecnologie digitali di comunicazione potenzi e semplifichi gli apprendimenti.
Sono entusiasti prigionieri di anglicismi di ogni genere, dall'e-book all'e-learning passando per i learning object, dal webwatching al webinar via webmaster, e così via.
Adorano le LIM, i tablet, gli smartphone, i phablet e non vedono l'ora di iniziare gli studenti alla più aziendalistica e discriminante della pratiche didattiche, il BYOD (Bring your own device). Sono pronti a tutto pur di far digerire ai più riottosi il cosiddetto registro elettronico, la ventata di modernità a cui nessun istituto può sottrarsi, a costo di confondere la dematerializzazione della produzione di documenti con la smaterializzazione, tema della fantascienza e delle storie fantasy.
Molti di loro hanno costituito un gruppo di fan su Facebook, a testimonianza della tendenza per cui sempre più persone e organismi sociali consegnano una propria proiezione a una corporation immaginando di partecipare a “nuovi” processi di democratizzazione dei rapporti.
Stiamo parlando degli animatori digitali, l'ultima delle fantasiose e demagogiche invenzioni lessicali del nostro superiore ministero, impegnato ormai da più di vent'anni a diffondere nelle scuole “cultura digitale”.
Qualcuno dei lettori avrà probabilmente notato il ricorrente comparire dell'aggettivo digitale, che – nato per definire ciò viene rappresentato con numeri o che manipola numeri – ha avuto, soprattutto nel mondo della scuola, un progressivo scivolamento semantico che gli conferisce un significato davvero curioso e totalitario, unendo al concetto di uso di tecnologie quello di innovazione metodologica e quello di efficacia formativa garantita, in una sorta di compiaciuto dogmatismo.
Del resto l'impiego delle tecnologie digitali a scuola è stata la punta di diamante dell'introduzione nella scuola di metodi, comportamenti, principi e valori tipici del neoliberismo e del pensiero unico. Sono decenni che si susseguono indisturbatamente bandi, concorsi, premi, che hanno introdotto, consolidato e normalizzato il tema della concorrenza tra i diversi istituti. Sono lustri che si sollecita acriticamentente la vocazione individualistica e autoreferenziale di molti insegnanti, che – in una forma parodistica di auto-imprenditorialità - accettano ruoli la cui caratteristica fondamentale è l'acquisizione di una sorta di meschino status privilegiato, quello dell'esperto di oggetti che molti dei colleghi non “sanno nemmeno accendere”. Sono anni che si accetta pedissequamente che nelle singole unità scolastiche si creino zone di (per fortuna a sua volta presunto) privilegio: le classi 2.0.
È davvero difficile trovare una spiegazione diversa da quello di una triste regressione ideale, culturale e professionale alla scarsa memoria storica delle istituzioni scolastiche della Repubblica, che in una ventina d'anni hanno assistito al fallimento o al nulla di fatto degli operatori tecnologici degli anni Novanta e delle mai consolidate figure di sistema a cui avrebbero dovuto portare i corsi di formazione svoltisi intorno al 2003.
Resta difficile accettare che nel 2015 nessuno si sia indignato non solo per l'onnipotenza dell'aggettivo digitale, ma anche per la penosa ridicolaggine del sostantivo animatori, che richiama atmosfere tra oratoriali e vacanziere. Del resto, nessuna particolare reazione aveva suscitato poco più di un anno e mezzo fa la precedente trovata propagandistica del ministro Giannini, che auspicò la non andata a buon fine introduzione a scuola degli “evangelisti tecnologici”, sull'onda della nomina dei primi “digital champions” comunali.